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venerdì, 29 Marzo 2024

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Ass. Antimafie e Antiracket Paolo Borsellino: nomina del Presidente onorario, rinnovo del Direttivo

Marsala – Si sono riuniti sabato 10 dicembre 2016, presso la sede sociale sita in Marsala nella via Ernesto Del Giudice (sede comando Polizia Municipale), gli associati dell’Associazione Antimafie e Antiracket – Paolo Borsellino – onlus. All’unanimità dei presenti (30 associati) è stata nominato quale Presidente Onorario dell’Associazione la testimone di giustizia Piera Aiello, nata a Partanna il 2 luglio 1967, cognata di Rita Atria*. La stessa raggiunta telefonicamente ha dichiarato quanto segue: “per me è un grande onore assumere la Presidenza Onoraria della Vostra Associazione che seguo da anni: “Sono felicissima, quanto prima verrò a trovarvi”.

Si è proceduto altresì al rinnovo del Consiglio Direttivo dell’Associazione per il biennio 2016/2018; è stato confermato Presidente Antonino Salvatore CHIRCO; assumerà il ruolo di Vice Presidente Antonio CUSUMANO (responsabile in provincia di Trapani del Sindacato di Polizia Siulp); gli altri componenti del Consiglio Direttivo sono il testimone di giustizia Angelo NICETA (ha testimoniato recentemente nel processo relativo alla c.d. “trattativa stato mafia”)****, Enzo CAMPISI, Giuseppe MANETTA, Francesco SCHIFANO e Leonardo VALENZA.

Potenziati anche i gruppi tematici di lavoro che sono coordinati dall’avv. Giuseppe GANDOLFO; sono entrati a farne parte il giornalista Paolo BORROMETI di Modica**, la giornalista Michela GARGIULO***, Noemi Rita GATTO di Ribera, Angelo NICETA di Palermo, Giuseppe MANETTA di Ribera, Claudio ROTUNNO di Perugia, Costantino PESCE di Bari, Maria IPPOLITO di Caltanissetta, Patrizia CIORCIARI di Bari, Angelo VOZA di Avellino (agente di scorta del Magistrato Carlo Palermo nel 1985), Teresa Maria FRISCIA di Sciacca, Paola Maria FRISCIA di Sciacca e Valerio INSINNA di Palermo.

Nei prossimi mesi saranno organizzati incontri dibattito nei licei classici delle province siciliane nonché nelle facoltà di Giurisprudenza di Palermo, Roma 3, Bologna, Brescia, Salerno, Napoli e Lumsa Palermo.

* PIERA AIELLO
La storia di Piera Aiello inizia quando all’età di 14 anni conobbe Nicolò Atria. Riferisce Piera Aiello: “io e Nicolò provenivamo da culture diverse e questo provocava in me, nonostante l’affetto che ci univa, forti disaccordi. Le radici mafiose di Nicola (Nicolò ) erano talmente forti da essere coinvolto in un gioco spietato e immorale. Un gioco partito dall’uccisione del padre, il boss don Vito Atria, avvenuta il 18 novembre 1985 a soli nove giorni dal mio matrimonio. Lo spirito della vendetta, tipico di chi nasce e cresce in un ambiente intriso di mafia, ha spinto Nicola a commettere l’errore più grande della sua vita: tentare di vendicare il padre con i mezzi della mafia. Io sono stata scelta da mio suocero, non da mio marito – dice Piera – ho sempre cercato di dissuadere mio marito dal tentativo di vendicare la morte di suo padre, ma non ci fu nulla da fare. Lui era immischiato nello spaccio di droga e girava armato. Quando provavo a dirgli di smettere con questa vita lui mi picchiava”. Nicolò Atria sarà ucciso il 24 giugno 1991 sotto gli occhi di Piera. “Quel giorno, dentro al mio ristorarne aperto da soli tre giorni, mi salvai per miracolo. Secondo me – dice Piera – Nicolò neanche si è accorto di morire, è passato dalla vita alla morte in pochi secondi, ammazzato a colpi di fucile a canne mozze. Dopo la sua morte sono stata perseguitata e sorvegliata a vista dai mafiosi implicati nel suo omicidio. Venni avvicinata da un mio amico carabiniere e dal Sostituto Procuratore di Sciacca, Morena Plazzi, la quale mi portò a Terrasini per conoscere il Procuratore Capo della Procura della Repubblica di Marsala: Paolo Borsellino. A quel tempo non sapevo cosa significasse collaborare con la giustizia. Quando incontrai Paolo Borsellino non avevo idea del ruolo che ricopriva e soprattutto non mi rendevo conto dell’importanza di quell’incontro. Dopo quell’incontro Paolo Borsellino per me non rappresentò solo il magistrato che si occupava delle mie testimonianze, ma diventò un amico, un padre a cui aggrapparsi nei momenti di sconforto (e sono stati tanti !). La mia sete di giustizia non inizia, come tanti potrebbero pensare, il giorno dopo l’omicidio di mio marito. Infatti, solo qualche mese prima avevo concorso per agente di polizia. Mio marito non fu contrario, mi disse che poteva far comodo, dopo tutto, un poliziotto in famiglia, ma quando gli dissi che se non si sistemava la testa, lui sarebbe stato il primo che avrei sbattuto in galera, quel giorno per l’ennesima volta, mi picchiò, ma ero orgogliosa per essermi ribellata ad una cultura che non mi apparteneva e che rifiutavo totalmente. Ritornando alla mia collaborazione, mi ricordo che quando misi piede a Roma, un Maresciallo di nome Massimo e il colonnello Gentile mi fecero la spesa e mi portarono in un residence, poi mi diedero il mio primo contributo di £ 1.200.000, lo rifiutai perché non erano soldi guadagnati ed io ero abituata a sudarmi i soldi. Questo funzionario mi disse che li dovevo prendere per forza, in quanto erano soldi per i collaboratori e che ci venivano dati ogni mese, a quel punto non sapendo come comportarmi, chiamai Paolo Borsellino e gli dissi che un Maresciallo voleva darmi soldi che io non volevo. Paolo Borsellino si fece una gran risata dicendomi di prenderli perché io ero diventata una collaboratrice di giustizia, cioè ero sotto tutela dello Stato e dovevo considerare quest’ultimo come un padre che mi manteneva, cioè quei soldi erano un sostegno visto che non avrei potuto lavorare. Dopo quell’episodio incontrai diverse volte Paolo Borsellino, il quale mi spiegò la mia posizione, come mi dovevo comportare, cioè cosa potevo e non potevo fare. Quando iniziai a collaborare non vi era il servizio centrale di protezione ma l’alto commissariato, un’organizzazione poco funzionante e soprattutto poco attenta al rispetto dei principi fondamentali dell’uomo. Paolo Borsellino, anche se non gli competeva, cercava di sopperire a queste carenze facendo pressioni e soprattutto dandoci qualche soldo per arrivare alla fine del mese. Dopo la morte dello zio Paolo mi sono scontrata con una realtà paradossale, oltre alla mafia dovevo combattere con i funzionari e apparati dello stato per ottenere il mio diritto ad essere cittadina. Per anni ho subito. Bugie su bugie. Umiliazioni su umiliazioni. Sopraffazioni su sopraffazioni. Macchine da tribunale sempre pronte a partire ad arricchire verbali di interrogatori. Non persone. Non cittadini. Ma pesi da trascinarsi, pesi che di tanto in tanto vengono tirati fuori dagli armadi, vengono rispolverati con una telefonata ipocrita da parte di alcuni funzionari dello Stato. Poi il silenzio. Il silenzio che uccide. Che uccide le speranze, lo spirito, la voglia di vivere. Quel silenzio e quella solitudine che secondo me hanno spinto la mia cara cognata Rita Atria a spiccare il volo verso una libertà senza vincoli: la morte. Dal 1991 al febbraio del 1997 per lo Stato ero solo un fantasma. Per farmi fare le ricevute fiscali utilizzavo il codice fiscale di una amica. Nel 1994 mi rispondevano che era una questione di giorni… sono passati altri due anni, e le cose non sono cambiate. La situazione si è sbloccata solo nel febbraio 1997 dopo le pressioni dell’Associazione Rita Atria, di Luigi Ciotti e di Rita Borsellino. L’Associazione ha trascorso le intere vacanze di Natale del ’96 a preparare un dossier dove si mettevano in evidenza le violazione dei diritti umani su quattro testimoni di giustizia (due vivi e due morti) da parte dell’alto commissariato prima e del servizio centrale di protezione poi (nel ’97 presieduto dal sottosegretario Sinisi). Le mie lotte con il Servizio non sono ancora finite, nel tempo sono risultata indigesta a tutti i sottosegretari di tutti i partiti. Prima delle nuove elezioni ho messo il sigillo persino sul mandato dell’ex sottosegretario Mantovano. Il nuovo non lo conosco, speriamo vada meglio. Comunque oggi sono una cittadina in “libertà condizionata”. Io sono sempre in esilio, le persone denunciate da me e da Rita sono libere. La mia storia continua oggi fuori dalle aule di tribunale, continua con i ragazzi delle scuole che prima raggiungevo solo attraverso le lettere che Nadia mi inviava o leggeva al telefono. Molte risposte le ho dettate al telefono sottoponendo i ragazzi dell’Associazione ad opere di trascrizione molto faticose. Adesso abbiamo il sito, io non sono bravissima con l’informatica ma vi prometto che mi metterò d’impegno affinché questo strumento possa essere il mio nuovo ponte verso tutte quelle persone che in questi anni non hanno voluto dimenticare Rita e me…. dimenticavo: il 25 luglio 2008 un altro sogno si è avverato nonostante le ostruzioni ministeriali: sono diventata la Presidente dell’Associazione Antimafie “Rita Atria”. Anche Vita Maria ne fa parte e questo per me significa rientrare a far parte in maniera artecipata e attiva alla vita sociale della mia Terra. La Sicilia”.

** MICHELA GARGIULO
La giornalista Michela Gargiulo è la co-autrice, insieme a Margherita Asta, del libro “Sola con te in un futuro aprile”, pubblicato dalla Fandango libri (Il 2 aprile del 1985 Margherita ha soltanto dieci anni. La sua casa di Pizzolungo, a Trapani, al mattino è invasa dalla confusione allegra di Salvatore e Giuseppe, i suoi fratelli, gemelli di sei anni. Non vogliono saperne di vestirsi e Margherita non vuole fare tardi a scuola. Chiede un passaggio a una vicina. I gemelli usciranno con l’utilitaria della mamma Barbara. Nello stesso istante due macchine della scorta vanno a prendere un magistrato. Si chiama Carlo Palermo e viene da Trento, dove ha indagato su un traffico di morfina proveniente dalla Turchia. Un fiume di droga che serve a finanziare altri traffici, armi soprattutto, e che produce altri soldi, che si intrecciano col giro delle tangenti della politica. Quando Palermo arriva a sfiorare Craxi la sua indagine arriva al capolinea. Da Trento, il giudice si fa trasferire a Trapani, dove la morfina turca viene raffinata in eroina. Per continuare a indagare su mafia, massoneria e politica. Sul lungomare di Pizzolungo le auto della scorta sfrecciano, non possono rallentare e quella utilitaria con una donna e due bambini seduti dietro va troppo piano. La sorpassano. Parcheggiata sul ciglio della strada c’è una golf con venti chili di tritolo nel bagagliaio. Qualcuno preme il tasto di un telecomando. È l’inferno. Carlo Palermo viene sbalzato fuori, è sotto choc ma si salva. Di Barbara Asta e dei piccoli Giuseppe e Salvatore restano solo frammenti).

*** PAOLO BORROMETI
Paolo Borrometi è nato a Ragusa il 1 febbraio 1983 ma si definisce orgogliosamente Modicano. Studia al Liceo Classico “Tommaso Campailla” di Modica prima per poi laurearsi in Giurisprudenza. E’ il giornalista che ha svelato il clan nella terra di Montalbano. Paolo Borrometi è dovuto scappare dalla Sicilia a Roma «Ma i mafiosi continuano a perseguitarmi anche qui». Non ha una scorta fissa. «Stai attento». La prima minaccia era stata incisa a caratteri cubitali sulla fiancata della station wagon: «Si fossero fermati alle scritte ci avrei messo la firma», sorride amaro Paolo Borrometi, giornalista 32enne ragusano, cui la mafia l’ha giurata. Prima dei suoi articoli Scicli era, quasi per tutti, la terra senza mafia del commissario Montalbano. Ora, dopo i suoi pezzi, scritti in solitudine sul sito «laspia.it» è il comune sciolto per infiltrazioni con il sindaco rinviato a giudizio per concorso esterno. Dopo le scritte venne altro. Una spalla frantumata. La porta di casa data alle fiamme. Minacce, sempre più pesanti. Fino all’ultima, gravissima, di pochi giorni fa, a Roma, che gli è valsa la solidarietà del presidente del Senato, Piero Grasso. Ma non ancora un’auto blindata e una scorta 24 ore su 24. «La prima cosa che pensi è: “Oddio che ho fatto?” – racconta con semplicità Borrometi che ora è anche collaboratore dell’Agi ed editorialista de Il Tempo-. Poi una rabbia assurda per quei gesti vili. Ma la cosa che più ti fa gelare il sangue è chi ti dice: “Chi te lo fa fare?”». Lo stesso refrain delle minacce che riceve per telefono e su Facebook. A vederlo, lo sguardo monello dietro gli occhiali trasparenti, nessuna posa da vate antimanfia, non lo diresti che è riuscito a far saltare i nervi alle cosche del ragusano e alle ‘ndrine di Gioia Tauro. Come è iniziata? «Non mi occupavo di mafia. Inizio a seguire il caso di Ivano Inglese che stavano per archiviare. Lancio un appello in tv a parlare. Qualcosa si muove». Lavora su Scicli. Arriva il primo avvertimento. Non lo segue. Il 16 aprile 2014 l’agguato. «Ero in campagna, da Bonnie. Il mio cane, che era molto irrequieta. Penso sia per la mancata passeggiata. Mi sento afferrare da dietro il braccio destro. Saltano i tendini. Le ossa. Cado a terra. Due uomini incappucciati mi prendono a calci gridando: “U capisti che t’hai a fare i fatti tuoi?”. Dura forse 30 secondi. I più lunghi e più difficili della mia vita. Con le cure il braccio è tornato a funzionare, anche se meno. Ma quella violazione della mia intimità, nel luogo dei miei sogni, non si è più rimarginata». Ci pensa su tre giorni. Infernali. Poi decide. Non si atteggia né a vittima, né a eroe. Anzi, sorride nel ricordare: «Mi sentivo come un gattino, bagnato, nell’angolo. Ma scelgo di continuare a dare il mio contributo alla verità. Molti mi sono vicino. Ma poche istituzioni». Cominciano le voci che attribuiscono il suo agguato a una «storia di corna». Lui insiste. Pubblica la prima puntata dell’inchiesta sul boss di Scicli che chiedeva il pizzo di un euro a manifesto per fare pubblicità ai candidati e del sindaco che, vinte le elezioni, gli aveva assegnato l’appalto dei rifiuti. Su un muro scrivono: «Borrometi sei morto». Non molla. Tornano. «Ero tornato a vivere dai miei. Un bastardo, di notte, da fuoco alla porta di casa. Si può immaginare cosa provi la mamma di un figlio unico. Mio padre, mai loquace, mi disse: “Mai giù. Sempre su». Poi tutto va veloce. Scrive del capo ‘ndrina di Gioia Tauro che distribuiva la droga nel ragusano per conto della mafia. La figlia del boss «sparato in faccia» interrompe il lutto per intimargli di smettere. Arrivano l’avviso di garanzia al sindaco, l’arresto del boss e il commissariamento della città di Montalbano. Lo trasferiscono a Roma per proteggerlo. Scrive di mafia anche da qui. Del mercato ortofrutticolo di Vittoria e del boss becchino Gianbattista Ventura che aveva intestato l’agenzia funebre a Padre Pio. Lui, via mail, gli scrive: «Ti scippo la testa. Anche dentro il commissariato». Infine il segnale più grave, sul quale gli inquirenti ora indagano. Smetterà? Lui sorride: «No. La paura c’è. Sono un ex balbuziente. Dall’altra sera sono tornato un po’ a balbettare. Ma sogno un mattino di svegliarmi e dire: visto che valeva la pena».

**** ANGELO NICETA
Angelo Niceta ha 46 anni, quattro figli, tra cui un pilota di Formula 1 mancato: il ragazzo, medaglia d’oro al valore atletico, è dovuto tornare da Londra abbandonando la possibilità di entrare nello Junior Program della McLaren per finire nel programma di protezione dei pentiti di mafia. Ma Angelo non è mai stato accusato di mafia: ha deposto nel processo della Trattativa Stato-mafia denunciando le relazioni mafiose dei suoi parenti, i Niceta, una delle famiglie più note di Palermo, raccontando frequentazioni e affari di zii e cugini con Bernardo Provenzano, i fratelli Carlo, Giuseppe e Filippo Guttadauro e persino con Matteo Messina Denaro e per lui i magistrati della Procura, Nino Di Matteo e Pierangelo Padova, hanno chiesto lo status di “testimone di giustizia”. La commissione centrale del Viminale lo ha inserito però nell’elenco dei “pentiti” e lui per protesta ha abbandonato il programma di protezione. Oggi gira per Palermo senza scorta e denuncia: “Sono un testimone, e come tale vorrei essere considerato, c’è una parte di Stato che ostacola la lotta alla mafia. Io non temo per la mia vita, almeno fino quando ci saranno i processi in corso, ma so che le persone che ho accusato sanno essere vendicative’’.

Niceta, lei ha detto che Provenzano e Messina Denaro erano di casa dai suoi parenti…
I rapporti con mio zio Mario iniziarono negli anni 80, erano rapporti molto intimi, decidevano assieme che fare anche in tempo di elezioni, ricordo che una volta vennero Salvo Lima e Ciancimino a proporre mio padre come sindaco di Palermo. Ma lui declinò l’offerta. Una volta stanco di vedere questi picciotti armati, che per provarsi i vestiti posavano pistole ovunque, mio padre gli disse: ‘Ora ve ne dovete andare, qui dobbiamo lavorare’. Loro lo guardarono malissimo e rivolti a mio zio lo minacciarono: ‘Solo perché è tuo fratello (non reagiamo, ndr) , così non siamo mai stati trattati da nessuno’.

Perché ha deciso di abbandonare la protezione dello Stato?
Perché sono un testimone, non un collaboratore. Non posso avallare con una firma uno status che non è il mio: da quel mondo sono lontano anni luce, sono incensurato, non ho mai condiviso le amicizie dei miei parenti e il loro modo di rapportarsi a Cosa Nostra. Per un periodo ho cercato di adattare la mia famiglia ai disagi infiniti cui ci ha sottoposto lo Stato, tra case fatiscenti, lontane da centri abitati e ai livelli minimi di sussistenza. Poi non ce l’ho fatta più.

Oggi lei gira liberamente per Palermo, senza scorta. Non ha paura?
So che rischio, ma lo Stato ha deciso che dopo avere abbandonato il programma di protezione non devo avere alcun tipo di assistenza. Fino a quando ci sono i processi si guardano bene dal farmi del male, si firmerebbero. Ora ci stanno attenti ma è gente molto vendicativa. E poi non hanno quasi bisogno di eliminarmi fisicamente, lo hanno fatto socialmente ed economicamente. Tutta la Palermo che io conosco, imprenditoriale, politica, dei circoli della cosiddetta città-bene, mi odia.

Perché?
Perché sono pericoloso, posso parlare di tante persone. E il marchio di collaboratore tiene lontana anche la solidarietà antimafia: ‘Chissà che cos’ha fatto, valutiamolo nel tempo’, dicono.

Lei è imputato di bancarotta
Sono l’unico imputato perché nella società ho versato dei soldi, e non perché ne ho sottratti. Hanno tentato di coinvolgermi come socio occulto per creare una giustificazione alle mie accuse, ma l’indagine chiarirà tutto.

Quello in fondo era anche il suo mondo, perché ha deciso di parlare?
Non è mai stato il mio mondo, non mi sono mai riconosciuto in quelle frequentazioni e non mi sono mai vantato di quelle amicizie, che peraltro non avevo. Sono stati i soprusi, le angherie, le minacce e i ‘consigli amichevoli’ di tutta questa gente a spingermi a parlare. Ai magistrati sto facendo dichiarazioni su tutto quello che conosco, sia su amministratori giudiziari, che in ambito fallimentare; parlo di collusioni con mafia e imprenditori.

Come vive la sua famiglia?
Sono sotto la soglia di povertà, non posso lavorare, non ho entrate, le mie proprietà sono bloccate, non posso andare in banca a chiedere un mutuo. Sono isolato a 360 gradi e non protetto dallo Stato.

Si sente abbandonato dalle istituzioni?
Io credo ancora nello Stato con cui sto facendo questo percorso, ma credo pure che esiste una parte di Stato che questo percorso lo vuole nascondere, perché è dentro queste dinamiche.

Tornerà a fare l’imprenditore a Palermo?
Amo questa città, ci sono nato e cresciuto, ma sarei un pazzo a tornare a lavorare qui.

Il Presidente
Antonino Salvatore Chirco

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