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27 Gennaio 1945: ricordare non basta

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Marsala – Quando si pronuncia la parola “Shoah” segue quasi sempre un momento di silenzio… forse perché di parole per descriverne il significato e quello che ha rappresentato per milioni di persone non ce ne sono più, bisognerebbe inventarne delle nuove. Cosa significa “giornata della memoria”? Ha senso ripetere meccanicamente ogni anno le stesse parole retoriche e vuote? Bisognerebbe piuttosto ricercare una “cultura della memoria”, ma non fine a se stessa: la memoria per la memoria non è utile a nessuno, non serve ripetersi per un giorno all’anno sempre i soliti luoghi comuni, beceri discorsi da bar.

Dobbiamo concentrarci su una memoria che deve essere necessariamente riflessione. Come è stato possibile che sia accaduto ciò che è accaduto? Ma, soprattutto, potrebbe accadere ancora? Eppure, posti di fronte alla realtà storica, all’atrocità commessa dal nazismo, non ci accorgiamo che, con le dovute proporzioni, questa intolleranza, quest’odio viene oggi indirizzato su altri soggetti. Solamente con la cultura si può tentare di arginare questo fenomeno. Fino a quando ci limiteremo a ripetere pedissequamente per un giorno all’anno frasi già dette infinite volte, noi tutti resteremo irrimediabilmente e tristemente figli di Eichmann.

La prima volta in cui ho visitato un campo di concentramento, Auschwitz-Birkenau, avevo solo dodici anni. I miei genitori portarono me e mio fratello a vedere con i nostri occhi fino a dove fosse capace di spingersi la mente di un uomo in preda al suo delirio di onnipotenza. Restai senza parole, totalmente avvolta dal vuoto e dal silenzio. Il filo spinato, al di là del quale si trovava la libertà, i forni crematori, le centinaia di migliaia di indumenti, oggetti, foto, ricordi, appartenuti a chi da quel luogo non aveva più fatto ritorno, facevano male al cuore.

Oggi, con la maturità di una persona adulta, e tutte le volte in cui la mia mente apre qualche cassetto della memoria, penso a quell’uomo colto, intelligente, brillante, capace e serio che è stato mio nonno… Eli Wasersztrum, ebreo polacco internato in un campo di concentramento in Polonia, nella sua Polonia, in cui ha perso tutta la famiglia, dove ha patito la fame, il freddo, dove ha potuto vedere con i suoi stessi occhi l’uomo nella sua condizione peggiore, ridotto l’ombra di se stesso. Lui è stato più fortunato di altri; grazie alla sua cultura e alla conoscenza di molte lingue straniere, il comandante del campo aveva deciso di impiegarlo negli uffici per le comunicazioni.

Nel tempo riuscì a conquistarsi la fiducia di uno dei soldati delle SS che lo controllava durante il lavoro e questo, a sua insaputa, fu il passaporto per la libertà. Una notte, infatti, nel silenzio del campo avvolto da una straordinaria nevicata, lo aiutò a fuggire. Percorse molti chilometri prima di svenire per la stanchezza e la debolezza dovute al fisico debilitato a causa della prigionia. E sarebbe morto lì se, per caso, una carrozza condotta da una donna non fosse passata e non lo avesse raccolto…anche se a me piace pensare che quell’incontro fosse già scritto nel destino. La donna gestiva un orfanotrofio: nascose quell’uomo per diverso tempo, curandolo e nutrendolo. Una volta ripresosi, cominciò a guardare con occhi diversi colei che lo aveva salvato e che amorevolmente si era presa cura di lui. Quella donna era mia nonna.

Il 27 gennaio 1945 i soldati dell’Armata Rossa abbattevano i cancelli di Auschwitz e liberavano i prigionieri sopravvissuti allo sterminio del campo nazista. Le truppe liberatrici, entrando nel campo di Auschwitz-Birkenau, scoprirono e svelarono al mondo intero il più atroce orrore della storia dell’umanità: la Shoah. Dalla fine degli anni ’30 al 1945 in Europa furono deportati e uccisi circa sei milioni di ebrei. I miei nonni riuscirono a realizzare i loro sogni: crearono una famiglia, mio nonno diventò Procuratore della Repubblica, la vita sembrava avergli restituito quello che, fino a quel momento, gli aveva prepotentemente tolto.

Il primo pensiero fu quello di andare a cercare il soldato delle SS che gli aveva salvato la vita. Lo trovò nella Germania dell’est che lavorava come minatore: l’incontro fu di quelli che ti lasciano senza fiato, uno sguardo, un abbraccio e la certezza che nessuno dei due avrebbe mai dimenticato l’altro. Non si può non riflettere sulla imprevedibilità della vita: il soldato nazista, rispettato e temuto, aveva preso il posto di quell’uomo prigioniero nei campi, diventato prima avvocato e poi Procuratore della Repubblica.

Gli anni trascorsero e nel 1968 scoppiò una rivolta studentesca dopo che il governo censurò la performance del pezzo teatrale di Adam Mickiewicz, perché accusato di contenere “sentimenti anti-sovietici”. Questi avvenimenti fecero da pretesto per lanciare una nuova campagna antisemitica e anti-intellighenzia. In questo periodo circa ventimila ebrei persero il loro posto di lavoro e dovettero emigrare… ma questa è un’altra storia. All’inizio di questo articolo dicevo che per descrivere le atrocità commesse dai nazisti ci vorrebbero parole nuove, quelle conosciute le abbiamo usate tutte… ma quelle di Primo Levi, il grande scrittore italiano deportato e sopravvissuto al lager di Auschwitz, non stancano mai e arrivano dritte al centro della nostra coscienza:

“Ogni qualvolta si pensa che uno straniero, o un diverso da noi è un Nemico, si pongono le premesse di una catena al cui termine c’è il Lager. Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici, considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce la pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno: meditate che questo è stato e che può sempre tornare ad essere”.

Florinda Licari

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