Ambiente

Flash Mob nell’Oasi di Capo Feto: domenica 17 ottobre

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Nella “Rete Natura 2000” la zona di Capo Feto è inclusa in una più ampia area la cui estensione complessiva, relativamente alle parti ritenute ancora in accettabile stato di conservazione naturale e quindi recuperabili ai fini della protezione, risulterebbe di 453 ha. Tuttavia, in quest’ampia zona si facevano ricadere i terreni che andavano dal limite Ovest della località Tonnarella (sul versante di Mazara del Vallo) al confine fra il comune di Petrosino (istituito nel 1980) e Marsala.

In pratica, diverse zone umide, oltre Capo Feto propriamente detto, ricadevano in questa area e fra queste quelle più rimarchevoli erano denominate Margiu Nispuliddi (o Margiu di Cariino), Margiu Milo e la palude di Sibiliana.

Di fatto, Capo Feto risulterebbe più associata alla zona umida detta Margi Spanò, coprendo entrambe originariamente ca 300 ha, ma Margi Spanò si è ridotta di molto nel tempo a causa dell’appropriazione indebita di suolo da parte dei proprietari dei terreni limitrofi e per l’insediamento di un grosso impianto di acquicoltura.

In conclusione, la superficie attribuibile a Capo Feto non dovrebbe essere superiore a 154ha, anche se, in alcuni documenti (come in SIC, ZPS ITA 10006) la denominazione mantiene la vecchia unità geografica (“Paludi di Capo Feto e Margi Spanò”). Per inciso, nell’ottica della “Riserva Naturale Integrale”, ben 130ha di CAPO FETO sarebbero meritevoli di essere inclusi in zona “A” (totale protezione) e solo i restanti 24 cadrebbero in zona “B” (protezione intermedia).

L’interesse naturalistico L’area umida (anche “acquitrinosa”) di Capo Feto è una vasta depressione litoranea, separata dal mare da uno stretto e basso cordone sabbioso, localizzata sulle coste della Sicilia sud occidentale.

Durante le stagioni più piovose, l’area appare ricca di acqua, mentre nel periodo estivo si presenta (oggi) quasi del tutto disseccata, tranne i canali e alcune delle pozze d’acqua (dette “Gorge” o “gorghe”) più profonde. In passato, però, Capo Feto risultava quasi interamente inondata anche nel periodo estivo. Originariamente incluso in una vasta area salmastra estesa per più di 400 e 1200 ettari (ha) sulla terra ed in mare, rispettivamente (almeno sino alla batimetrica dei 35 m).

Tornando alla descrizione geografica e biologica, la caratteristica non vivente (abiotica) più saliente di Capo Feto consiste nella complessa rete di canali (alcuni artificiali susseguenti agli interventi di bonifica), acquitrini e specchi d’acqua (detti “gorge” o “gorghe” o “vurghe”, come la Gorga di Nardu, o di Leonardo, o la Vurga du Babbaluciu, ovvero della Chiocciola) più o meno estesi, alimentati da sorgenti d’acqua dolce (a settentrione) o di acqua marina (più a sud), che però formano un ghiotto habitat per molte specie vegetali e animali (in particolare gli uccelli). Secondo l’alternarsi delle fasi climatiche e (purtroppo) anche a causa di improvvidi interventi umani (come i tentativi di bonifica), gli “acquitrini” di Capo Feto possono apparire perennemente invasi dalle acque oppure in buona parte disseccati (almeno nella stagione estiva).

Capo Feto rappresenta forse la più importante area di passaggio, sosta e rifugio per l’avifauna acquatica nella Sicilia occidentale. Inoltre, l’area, essendo anche un importante sito di nidificazione, svolge una funzione di diffusione (spill over) di molte specie di uccelli verso le altre zone umide del trapanese

Le minacce A causa delle improprie acquisizioni di suolo da parte di coltivatori (per esempio, per istallare vigneti), di pastori (recinti delle pecore e pascolo abusivo) e altri utilizzatori che hanno ritenuto di edificare, sempre abusivamente, vari edifici all’interno dell’area. Nonostante Capo Feto sia stato interessato da un intervento di riqualificazione molto costoso (da 1 a 2 milioni di euro, secondo le fonti) (Progetto LIFE 99 NAT/IT/6270).

Nel corso degli anni di abbandono, Capo Feto è divenuto una sorta di discarica a cielo aperto, con una distribuzione a macchia di leopardo di ogni tipo di rifiuti. Si va da quelli tipicamente cittadini, come i residui organici (segmento oggi chiamato “umido”) o le posate di plastica (per culminare con elettrodomestici, gettati anche nei canali e nelle gorge) e dai materiali di risulta proveniente da cave o da attività di demolizioni di manufatti.

Quest’ultima categoria di inerti (sfabbricidi) include anche la presenza di manufatti obsolescenti di arginature e cementificazione di alvei di canalizzazioni eseguite per il drenaggio e la bonifica della zona umida e poi distrutti (ma non rimossi) durante il progetto LIFE.

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